martedì 25 febbraio 2014

Pericoli delle sovradiagnosi del CANCRO

Uno dei pericoli più seri della diagnosi precoce, è la sovradiagnosi, che consiste nel mettere in evidenza delle lesioni o dei tumori in situ che non evolveranno mai nel corso della vita, ma sui quali, se li trovi, ti sentirai ‘obbligato’ ad intervenire chirurgicamente e/o con terapie radianti o chemioterapiche.

Una recente analisi dei risultati di 57 studi sull’efficacia degli screening tumorali ha evidenziato che solo in 4 di essi è stata valutata la prevalenza della sovradiagnosi. 

I check-up, gli screening e i test diagnostici hanno quindi molto spesso la capacità di sovrastimare l’incidenza di malattie ‘inconsistenti’ oppure di anticipare una diagnosi che crea magari per anni ansia e angoscia supplementari senza poi vi sia un beneficio in termini di sopravvivenza.
I dati americani purtroppo mostrano che in questi ultimi 30 anni c’è stato un notevole aumento nella scoperta di questi tumori “precoci” (che tumori non sono) e sarà sempre di più.

La stima, anche se per difetto, è che oltre un milione e trecentomila donne americane abbiano ricevuto una tale diagnosi con i successivi trattamenti ortodossi (chirurgia, chemio e radio), inutili se non per le industrie del cancro.

Screening del tumore alla prostata
Nel 1970 Richard Ablin, professore di immunobiologia e patologia al College of Medicine dell’Università dell’Arizona, ha scoperto l’antigene specifico prostatico (PSA).
Il criterio convenzionale per l’indicazione alla biopsia era che il PSA fosse al di sopra di 4. Ma nel 2004 uno studio pubblicato indicò che alcuni uomini, nonostante avessero un livello di PSA inferiore a 4, potevano avere un tumore alla prostata. Alcuni medici allora cominciarono a sostenere che era necessario sottoporre a intervento chirurgico di biopsia quando i livelli erano superiori a 2,545.

Purtroppo per tutti noi, il valore del PSA non è indicativo di nulla, perché il tumore prostatico è individuabile

anche in uomini con PSA inferiore a 1 (in uno studio su 10 mila volontari sani, nel 9% di questi la biopsia confermò il tumore). 
Non esiste un livello che garantisca l’assenza di malattia, di conseguenza non può esistere una soglia precisa per l’indicazione della biopsia. 
È bene sapere che la biopsia prostatica è completamente diversa da qualsiasi altra biopsia effettuata per la ricerca di un tumore.

Innanzitutto la biopsia viene effettuata a causa del valore laboratoristico del PSA, mentre in altri organi, come il seno, ci si focalizza su un nodulo o una massa che il medico può sentire o vedere attraverso la diagnostica per immagini (ecografia, mammografia...).
Nella prostata il medico non vede assolutamente nulla, non ha nessuna immagine che lo aiuti, ma preleva alla cieca, con un fine ago, dei campioni (da 6 a 12) in varie zone dell’organo, per ricercare appunto il tumore.
Se si eseguono più biopsie, se si abbassano le soglie di normalità (valore del PSA), si trovano più tumori.
Molti uomini certamente muoiono di cancro alla prostata e questo lo rende in Italia la terza causa di morte nei maschi.
La probabilità che un americano medio muoia per questa malattia, è del 3%, mentre la probabilità che gli venga diagnosticata è del 16%. 

Questi dati indicano una cosa sola: moltissimi uomini ogni anno ricevono una diagnosi di cancro alla prostata, ma non muoiono per la malattia. Il merito di tutto ciò va alle terapie o alla sovradiagnosi?
In uno studio della Cleveland Clinic di Detroit, alcuni patologi esaminarono la prostata di 525 uomini di età differente deceduti in incidenti. Tali uomini erano caratterizzati dall’assenza di qualsiasi tipo di cancro o di altra malattia nota.
Risultato: tra gli uomini giovani, intorno ai 20 anni, quasi il 10% aveva il cancro alla prostata e negli uomini di circa 70 anni, la malattia era presente nel 75% di casi.

Se è vero che oltre la metà degli uomini di una certa età ha la malattia, ma solo il 3% muore a causa di essa (o delle terapie come vedremo), il potenziale margine di sovradiagnosi è incredibilmente alto.

Il punto cruciale da comprendere è il seguente: maggiore è il numero di screening prostatico, maggiore è il numero di biopsie effettuate e maggiore è il numero di tumori identificati. Ma tale screening non è in grado di distinguere i vari tipi di tumore, cioè quelli che crescono veloci portando alla morte, da quelli che non crescono, che sono fermi e che rimarranno fermi per tutta la vita senza dare complicanze o problemi.
Una volta individuato però, si finisce prima sotto i ferri e poi se va male, c’è chemio e radio che attendono.

pericoli delle terapie a base di radio e chemio saranno trattate più avanti, ma anche la chirurgia del tumore alla prostata (prostatectomia radicale) provoca danni enormi, danni che spesso non vengono espressamente spiegati al paziente prima dell’operazione: disfunzioni erettili, disfunzioni sessuali come impotenza, incontinenza, problemi al retto, l’organo che è subito dietro, e per finire anche la morte del paziente.

Dopo quarant’anni, il dottor Richard Ablin (scopritore del PSA), in un editoriale su The New York Times del 9 marzo 2010, dal titolo “The great prostate mistake” spiega al mondo che la sua scoperta ha portato ad un vero e proprio “disastro di salute pubblica motivato dal profitto”.





Non solo, rincara la dose dicendo che “la comunità medica deve rinunciare all’uso inappropriato del PSA nello screening. Così facendo si risparmierebbero miliardi di dollari e si eviterebbero a milioni di uomini trattamenti debilitanti e non necessari. Il test non è più affidabile che il lancio di una moneta … e non è in grado di identificare il cancro alla prostata e, ancor più importante, non è in grado di distinguere tra due tipi di cancro prostatico: quello che vi ucciderà e quello che non lo farà. Uomini con un basso valore del test possono essere colpiti da tumore pericoloso, mentre quelli con alti valori del test possono essere completamente sani”.

Il dottor Otis Brawley responsabile medico dell’American Cancer Society, è dello stesso parere: “con il test del PSA avete 50 volte più probabilità di rovinarvi la vita che di salvarla”.
Nonostante quanto detto, tra il 50 e il 70% degli uomini sopra i 50 anni, senza sintomi e rischi di familiarità, si sottopongono o sono stati sottoposti a questo test di diagnosi precoce.
Il rischio di sovradiagnosi in questo tipo di screening è stato stimato nel 50% dei tumori identificati!
Un tumore diagnosticato su due non è pericoloso, non evolve, non crea problemi, ma viene identificato...

Screening del tumore al seno
Nel caso delle mammografie, il prof. Gianfranco Domenighetti ha le idee molto precise: “la totalità degli opuscoli distribuiti dagli enti che promuovono questa indagine è non solo altamente disinformativa ma per la maggior parte può essere considerata ‘spazzatura’....”.
“Uno studio recente ha dimostrato che in Italia l’80% delle donne crede che la mammografia annulli o riduca il rischio di ammalarsi di cancro al seno (sic!), e negli altri Paesi analizzati (Svizzera, Gran Bretagna, USA) la percentuale è più o meno di questo ordine di grandezza. Tale percezione ormai diffusa è la conseguenza di un’informazione parziale, non corretta ed intrisa di conflitti di interessi. 
Qualcuno dovrebbe farsi carico di correggerla...”.

Gli opuscoli “informativi” sono così disinformativi, incompleti e faziosi perché il loro obiettivo è proprio quello di convincere (con la paura) le donne a farsi una diagnosi strumentale.
I dati scientifici in merito alle mammografie dimostrano che tale pratica diagnostica NON riduce la mortalità delle donne colpite da cancro alla mammella.
Non a caso, sempre più riviste mediche ufficiali hanno pubblicato articoli ed editoriali che si interrogano sull’efficacia o meno di questo screening indiscriminato: “Non è sbagliato dire di no” (British Medical Journal); “Ripensare lo screening mammografico” (Journal of The American Medical Association); “È ora di rinunciare allo screening mammografico?” (Canadian Medical Journal); “Più danni che benefici dallo screening mammografico” (British Medical Journal). 
Titoli inequivocabili che rendono palpabile la percezione che qualcosa sta cambiando da dentro il sistema.

Nel 1992 sono stati pubblicati i risultati di un grande studio randomizzato canadese su donne dai 40 ai 49 anni: il gruppo di intervento ricevette ogni anno non solo la mammografia ma anche un esame clinico del seno, mentre il gruppo di controllo non ricevette nulla. Il risultato fu sorprendente: lo screening non riduceva la mortalità per cancro alla mammella.

Alla fine del 1992, addirittura 9 dei 10 trial randomizzati sull’efficacia dello screening mammografico erano stati completati e pubblicati nella letteratura medica: nessuno di questi studi (incluso quello canadese) dimostrò una riduzione della mortalità nelle donne giovani.
Una recente revisione scientifica del Nordic Cochrane Center dal titolo “Riduzione della mortalità grazie allo screening mammografico”, è stata eseguita su donne dai 50 ai 74 anni seguite per 10 anni.

Un primo gruppo di donne ha eseguito ogni 2 anni una mammografia, l’altro gruppo di controllo non ha fatto nulla. 
Risultato: per ogni 1.000 donne partecipanti allo screening, 1 donna avrà dopo 10 anni, la vita prolungata, cioè 1 decesso per tumore evitato rispetto a 1.000 donne che non hanno fatto la mammografia.
Mentre è facile focalizzare l’attenzione su quella donna che ne ha tratto vantaggio, ma cosa ne è stato delle altre 999? Sono state sottoposte a screening senza alcun vantaggio e molte di loro sono state sovradiagnosticate.
I problemi infatti evidenziati da questo interessante studio sono: sovradiagnosi, falsi positivi e negativi, biopsie chirurgiche di approfondimento. 

Falsi positivi in 242 donne
Circa 242 donne (oltre il 24%) hanno avuto un falso positivo, cioè una diagnosi di cancro al seno che in realtà non avevano. In pratica il mammografo evidenzia qualcosa che non c’è. Le complicanze psicologiche di ansia e paura legate alla diagnosi sono pesantissime.
È bene precisare che nonostante l’alta tecnologica che caratterizza la nostra epoca, non esiste un esame laboratoristico privo di falsi positivi.

Falsi negativi in 5 donne
Cinque donne con il tumore al seno, la mammografia non lo ha riscontrato.

Biopsie chirurgiche di approfondimento in 50 donne
Almeno 50 donne hanno subito una operazione chirurgica invasiva e rischiosa, probabilmente inutile.

Sovradiagnosi di tumore al seno in 15 donne
Quindici donne con un tumori in situ, cioè un tumore incistato che non sarebbero mai evoluti, hanno subito tutti i trattamenti... 

Quindi per una donna a cui si è evitato un decesso, altre 15 sono state trattate inutilmente con interventi chirurgici, radio e chemioterapici.
La conclusione del direttore del Nordic Cochrane Center di Copenaghen, Peter Gøetzsche, pubblicata il 31 luglio 2010 sulBritish Medical Journal dalla direttrice Fiona Godlee: “dopo 14 anni dall’introduzione degli screening, in Svezia NON si è verificata alcuna diminuzione della mortalità per cancro al seno! Non ci sono evidenze scientifiche che lo screening diminuisca la mortalità!”.
La mammografia per tanto non riduce la mortalità!

Sempre secondo il dottor Gøetzsche, la percentuale di falsi positivi dopo 10 screening è del 20% in Norvegia e del 50% negli Stati Uniti d’America. Questo vuol dire 1 donna su 5 in Norvegia e addirittura 1 donna su 2 in America avrà una diagnosi di cancro al seno completamente errata e falsata.

Questi dati assieme a tutti gli altri studi dimostrano che la mammografia produce l’effetto opposto: porta a più mastectomie, almeno il 20% in più. Il motivo è facile da comprendere: questo esame diagnostico indiscriminato fa aumentare il numero di donne con cancro al seno di tipo invasivo (il più pericoloso e mortale), ma anche il numero di donne con microscopici tumori distribuiti nella mammella.
Un lungo periodo di follow-up fatto su 215.000 donne del New Mexico che avevano avuto un referto mammografico normale, ha dimostrato che il rischio di queste donne di sviluppare un tumore alla mammella nei successivi 7 anni era esattamente lo stesso di quello delle donne della stessa età nella popolazione generale.



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